Le condizioni disumane, di degrado e di sovraffollamento delle carceri italiane sono ormai ben note, tanto che il nostro paese è stato più volte condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione della relativa Convenzione all’articolo 3, riguardante la proibizione della tortura, dicendo testualmente che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Tuttavia, siamo sicuri che il carcere sia un’istituzione efficace che riesce a garantire la sicurezza dei cittadini e, soprattutto, quella dei detenuti stessi?
Su questo tema si sviluppano l’analisi e le riflessioni del libro «Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini», edito da Chiarelettere nel 2015 e scritto a otto mani da Luigi Manconi, insegnante di Sociologia dei fenomeni politici presso l’università Iulm di Milano, parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, da Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia e sociologia del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Perugia, dove coordina la Clinica legale penitenziaria, da Valentina Calderone, direttrice di A buon diritto, associazione per le libertà fondata da Manconi, e da Federica Resta, avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali.
Gli autori sostengono fermamente come il carcere sia un’istituzione che dovrebbe essere abolita in quanto insostenibile dal punto di vista giuridico, sociale, politico e finanziario. Infatti, a dispetto del suo intento, esso non dissuade i detenuti dal compiere nuovamente delitti, è raro che abbia una finalità rieducativa e molto spesso innalza il tasso generale di criminalità: nel libro si sottolinea come più del 68% dei reclusi siano portati a compiere nuovi reati e come venga violato uno degli obblighi morali alla base di tutte le comunità civili, ovvero il riconoscimento della sacra natura umana. Proprio questa violazione è contraria ai fini della stessa Carta costituzionale: nel suo testo non viene mai utilizzato né il termine «carcere» né «pena detentiva» e agli articoli 13 e 27 punisce ogni tipo di violenza verso le persone soggette a restrizioni di libertà, sancendo che le pene devono essere umane e tendere alla rieducazione. Non essendo rispettati questi principi costituzionali per via delle strutture sovraffollate e degradate, per mancanza di una situazione di legalità e la presenza di violenze sia fisiche che psicologiche, per la composizione prevalente di categorie deboli e più soggette a pressioni, per la mancanza di percorsi differenziati per ogni tipo di situazione e reato, gli autori arrivano addirittura ad affermare che, paradossalmente, sia meglio la pena capitale, proprio perché nel carcere viene meno la tutela dell’integrità e dell’incolumità del corpo.
Nel libro si sfatano inoltre due miti. Il primo, che sostiene come non si possa fare a meno del carcere, smentito dal fatto che è un’invenzione relativamente recente, che non è sempre esistita, e il secondo, per cui l’abolizionismo sarebbe pura utopia, idea smontata grazie agli insegnamenti della storia: vengono riportati diversi esempi, tra cui quelli più conosciuti sono il testo «Dei delitti e delle pene» di Cesare Beccaria, che all’epoca portava l’idea originale dell’abolizione della pena di morte, e l’abolizione dei manicomi, avvenuta grazie al lavoro di Franco Basaglia all’ospedale psichiatrico di Gorizia. La trattazione continua con alcuni fatti realmente accaduti in diverse carceri italiani, dove per sopportare le circostanze e generalmente la vita in carcere, particolarmente dura e afflittiva, si ricorre in maniera massiccia agli psicofarmaci, mettendo in luce la distanza abissale tra le leggi di esecuzione penale italiane e la realtà.
Il libro termina con dieci proposte, attuabili fin da subito, tra cui la depenalizzazione per i reati meno gravi, l’abolizione dell’ergastolo e la riduzione delle pene detentive, un’ampia «decarcerizzazione» nel codice e nella legislazione penale speciale, la selezione e modulazione nel processo, il divieto di applicazione della custodia in carcere e il potenziamento di misure alternative alla prigione.
L’intento degli autori è far capire come il carcere sia un luogo che in pratica non serve a nessuno, ideato da qualcuno che non c’era mai stato prima. Ciò viene confermato anche dall’esperienza di chi aveva conosciuto la prigione: nel libro viene citato Altiero Spinelli, uno degli autori dell’idea di base del federalismo europeo, che dopo essere stato in carcere affermava che «per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in senso sostanziale», e continuava affermando «più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale».
di Francesca Gravner