È stato Guido Carli uno dei più convinti sostenitori dell’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht, Trattato da ratificare, senza riserve, perchè, secondo le parole di Carli, già Governatore della Banca d’Italia e poi Ministro del Tesoro, bisognava darsi “un ordinamento conforme ai principi dell’economia di mercato, basata su buone leggi e resa efficiente da stabilità monetaria e disciplina della finanza pubblica”. Parole dettate dal buonsenso oltre che, ovviamente, da una solida cultura economica e istituzionale. Ma le cose, come ben sappiamo, dal 1992 ad oggi non hanno rispettato quei nobili propositi. Su quel Trattato, dal quale doveva nascere l’Unione Economica e Monetaria (UEM), con l’Euro al centro, fervono tuttora crescenti discussioni. C’è chi imputa all’UEM la ragione principale dell’attuale dissesto economico e sociale, in altri termini la causa dei mali che ci affliggono. C’è invece chi sottolinea la positività dell’intero sistema in una difesa forse troppo dogmatica per essere credibile. Si tratta di un dibattito per nulla ozioso. Come ancora meno ozioso sembra lo sforzo di comprendere il significato politico, economico e persino culturale relativo all’euro e alla sua credibilità. E in tale dibattito siamo coinvolti tutti essendo questa moneta non solo nelle nostre tasche ma anche in quelle dei cittadini e delle imprese di altri 18 Paesi europei, segnando il loro benessere o il loro malessere. Tentiamo pertanto di farne un’analisi per così dire in “tre atti”.
PROLOGO
L’introduzione dell’euro è stato un tentativo straordinario per rimettere l’Europa sui binari di una integrazione più forte, dopo anni di pura comunità economica libero-scambista. Un tentativo fondato su una decisione politica seguita da una precisa ideologia economica della quale diremo più avanti. Quest’ultima è venuta meno per effetto dei profondi mutamenti sia interni all’Unione Europea sia globali.
Proviamo ora a percorrere la vita dell’euro fornendo al lettore una visione non tecnicista o settaria del suo significato e della sua importanza affinchè se ne possa valutare, ove possibile, non solo i suoi costi e i suoi benefici ma anche le sue intrinseche debolezze capaci, purtroppo, di dissolvere la sua indubbia potenzialità.
L’evoluzione dell’euro si può distinguere in tre distinti periodi, che provocatoriamente chiameremo “atti” con riferimento a una ipotetica rappresentazione teatrale che, a seconda dell’esito finale, tuttora incerto, potrebbe essere una commedia o un dramma, senza per questo voler mancare di rispetto ad attori e spettatori coinvolti.
ATTO PRIMO
L’UEM si avvia con slancio, in un clima di ottimismo per una moneta che si vuole forte e in grado di portare benefici netti per tutti: uno stambureggiante richiamo cui si adeguano, soprattutto in Italia, molti partiti sia di governo che di opposizione. L’antefatto, ossia la scelta di adottarla, risiede nella caduta del muro di Berlino nel 1989 che desta non poca preoccupazione politica in alcuni Paesi europei, preoccupazione legata ai ricordi del passato e al timore per il veder rinascere la “grande Germania”. Ma desta anche il timore, soprattutto francese, di veder compromessa, con la riunificazione tedesca, il mito tutto transalpino della “grandeur”. Da questi timori, pensati ma non detti, prende corpo l’idea di “europeizzare” la Germania togliendole il suo elemento più forte e rappresentativo ovvero la moneta nazionale, il marco. Il tutto con il consenso di Helmut Kohl: il Cancelliere tedesco non è la reincarnazione di Bismarck, ma vede nella riunificazione del suo popolo l’opportunità di una proiezione europea della Germania e, a ragione, se ne considera senza esibizionismi o ambizioni personali il protagonista. Tanto da non frapporre ostacoli alla proposta del Presidente francese Mitterrand e degli altri partner europei di sostituire il marco con una nuova valuta (l’euro). La Comunità Economica Europea va dunque trasformata ed un nuovo Trattato, stipulato appunto nel 1992, si propone di sancire un rilancio ancor più forte con la moneta unica. Questa prospettiva viene subito entusiasticamente accolta dall’Italia dove si fa strada la convizione che un’Europa più forte e solida, grazie all’euro, riesca persino ad amministrare più efficacemente il Paese, da sempre estremamente fragile. Il Trattato di Maastricht è indubbiamente il frutto di una decisione politica più che economico-monetaria anche se le conseguenze della sua applicazione non sono quelle sperate. Al movimento a favore dell’Europa politica si contappone ancora, infatti, una tenace resistenza degli Stati nazionali non disposti a vedersi togliere alcuni aspetti fondamentali della loro sovranità come quello della politica estera e della moneta. In sostanza l’Europa non deve essere né un’Europa federale né un’Europa dei popoli ma rimanere, sia pure con una veste inedita, una comunità di Stati nazionali, tutti riuniti nel “Consiglio Europeo”, vero depositario di ogni potere. Indipendentemente dai desideri e dai progetti di Kohl e Mitterrand e di coloro che, in buona fede, bramano un’Europa più forte e unita, i fatti risultano più eloquenti dimostrando che l’UEM, costruita solo parzialmente per non intaccare troppo il potere degli Stati nazionali e di alcuni di essi in particolare, non solo non porta sulla strada dell’unificazione politica ma non riesce neppure a scongiurare le crisi che, una volta scoppiate, avrebbero messo a nudo la debolezza dell’intero sistema. Sistema dove la volontà è l’espressione di una somma contraddittoria di decine di governi nazionali, ciascuno col proprio interesse da tutelare non di rado in contrasto con quello degli altri. L’obiettivo dell’unificazione politica persiste, sia pur molto attenuato, sullo sfondo. Ma diversi sono i criteri privilegiati al momento della nascita all’euro: anzitutto quello della stabilità monetaria che probabilmente serve a tranquillizzare la Germania cui viene pure concessa la prestigiosa sede della Banca Centrale Europea (BCE) assegnata alla città di Francoforte sul Reno. Alla stabilità monetaria deve accompagnarsi, secondo una visione economica allora prevalente, un grande e libero mercato capace di risolvere e adattarsi ad ogni tipo di problema, dimenticando che il mercato non è una società naturale ma un prodotto dell’attività e della civiltà umana: ha le sue regole e produce benefici solo se di buona qualità; necessita di una autorità che imponga con legge pochi ma precisi limiti. Sembrano ovvietà, ma forse non sono tenute abbastanza presenti al momento del varo dell’UEM. Tanto che l’accento viene posto non tanto sulle regole da imporre al mercato per favorire una vera integrazione economica, quanto sul come seguirle per evitare che i problemi di un singolo Paese dell’UEM diventino un problema “per tutti gli altri”.
Si stabiliscono alcuni criteri di ammissione all’eurozona detti “parametri”, criteri sui quali molto si dice e si scrive. In realtà sono semplicemente requisiti finalizzati, appunto, alla stabilità monetaria: chi dichiara (o promette) di rispettarli può essere ammesso nell’eurozona. Nessuno è costretto a farlo, e questo è bene ricordare a quanti sostengono che l’euro è una imposizione esterna allo Stato e alla sua sovranità. Con l’osservanza di questi parametri nasce la moneta che sempre deve tenerli presenti. Oggi possiamo considerarli come il risultato non solo della magia dei numeri e della teoria economica ma anche di opinabili fissazioni di oscuri funzionari ministeriali come quelli che consulta Mitterrand come rivelato di recente dal periodico francese “Le Parisien”. Ricordiamo, sia pur brevemente, che tra i parametri richiesti da Maastricht agli Stati membri figurano, oltre al basso tasso di inflazione, anche bassi livelli di deficit e debito pubblico, in modo da evitare pressioni sulla BCE per fronteggiare indebitamenti eccessivi degli Stati aderenti. In definitiva, nessun Paese può accedere all’euro se non rientra in tali parametri, che, peraltro, forse soltanto la Germania e l’Olanda rispettano pienamente. Va ancora detto che osservare tali parametri non garantisce alcun beneficio immediato, soprattutto se non vengono attuate quelle riforme interne necessarie a ridurre il peso del settore pubblico e se non si combattono le radicate abitudini all’illegalità. Valutazioni non tenute ben presenti dai governanti di quei Paesi, soprattutto mediterranei, che si portano dietro il peso di antiche inefficienze. Agli italiani preme entrare quanto prima nell’euro. Romano Prodi si adopera a tal punto per l’adesione alla moneta unica da imporre una “tassa per l’Europa”, caso più unico che raro nella storia della nostra integrazione. D’altra parte, il debito pubblico italiano è pari al doppio di quello previsto nel Trattato di Maastricht. Ma si vuole, in buona fede, dimostrare a tutti che gli italiani sono disposti ai sacrifici pur di entrare nell’euro. Così, in sede europea, nessuno si sente di contestare Prodi. L’Italia è accolta quindi nell’eurozona. Gli inglesi invece, legati al loro tradizionale isolazionismo e a una moneta forte come la sterlina, preferiscono star fuori, in attesa degli eventi, pronti a saltare dentro se le cose vanno bene. Ci si accorge che i parametri di Maastricht, per quanto stringenti, non sono poi uno scoglio insuperabile come del resto dimostra l’ingresso nell’euro dell’Italia. L’estrema complessità delle regole e delle istituzioni europee unite a un certo ottimismo sulle future prospettive nonché un certo “laissez faire” permettono alla fine l’adesione di Paesi con strutture economiche deboli nell’illusione che l’UEM possa prima o poi consentire a tutti di beneficiare dei vantaggi già goduti dai più forti, soprattutto dalla Germania. In questa ottica, qualche tempo dopo, la Grecia chiede ed ottiene di entrare presentando documenti economici e contabili spregiudicatamente falsi. Clamorosamente Bruxelles li approva, forse condizionata dal mito della Grecia antica, culla della civiltà e di quella europea in particolare. Un fatto grave, destinato qualche anno più tardi, a complicare la crisi dell’Eurozona con le conseguenze che sono oggi sotto gli occhi di tutti.
ATTO SECONDO
Tra il 1999 e il 2007, dopo un incerto avvio causato da polemiche per il rialzo dei prezzi di molti beni e servizi nonchè per un cambio debole col dollaro, c’è l’illusione che il sistema possa funzionare, illusione confortata dal formarsi di una sostanziale convergenza nominale dei tassi di interesse e del tasso di inflazione fra tutti i Paesi dell’eurozona. Di più: nei primi dieci anni di vita dell’euro, ben 24 Paesi scelgono di legare ad esso il tasso di cambio delle loro valute. C’è persino il paradossale caso del Montenegro che fa circolare al suo interno l’euro pur non facendo parte né dell’UE né, tantomeno, dell’UEM. Le aspettative per i cittadini dell’eurozona sembrano così alte da far ritenere la nostra moneta una possibile valuta alternativa al dollaro americano. In questo clima, nei soggetti più diversi, si fa strada l’abitudine di indebitarsi a tassi irrisori con la conseguenza di veder forse inutilmente incrementati sia l’indebitamento pubblico che quello privato. Alcuni Paesi si indebitano con altri, sicchè l’eurozona appare in equilibrio col resto del mondo ma, al suo interno, inizia a manifestare un divario tra debitori e creditori. Quel che è peggio è il fatto che l’UEM, nata come un sistema inedito della storia e della teoria economica non vede realizzarsi alcun progresso strutturale nonostante ne abbia estremo bisogno. In altri termini, la moneta europea esiste in un’area che non è affatto omogenea e unificata; non esiste vera integrazione europea nel settore banmcario nè in quello fiscale e neppure in quella del bilancio pubblico, ridotto a dimensioni modeste. La conseguenza è che le maggiori decisioni di politica economica restano nelle mani dei vari governi nazionali, per loro natura incapaci di perseguire un interesse superiore cioè quello dell’Europa e degli europei. Così, nell’assenza di un governo dell’economia si fa sempre più ampio il divario tra lo sviluppo economico e sociale di un nucleo forte, raccolto intorno alla Germania, in contrapposizione a un nucelo debole per lo più situato nell’area mediterranea. Ed è proprio la Germania, suo malgrado, ad assumere un peso rilevante nell’UEM non solo in quanto sede della Bce e dell’economia più forte del continente ma anche perchè il partner tradizionale francese tende a defilarsi lasciando l’intero sistema monetario alla conduzione e alle abitudini monetarie della Germania stessa: tutto questo significa bilanci in ordine, debito ridotto e moneta stabile (il meno svalutata possibile). Ed ecco gli attrezzi di Angela Merkel utilizzati per rattoppare le falle di un sistema idraulico non più in grado di trattenere acque non certo “chiare, fresche et dolci” (per dirla col Petrarca) ma maleodoranti, le acque del debito crescente. Agli altri Paesi non resta molto da fare, in quanto, con l’adesione all’UEM hanno rinunciato a gran parte della sovranità monetaria, ossia alla possibilità di monetizzare il debito. Hanno anche rinunciato alla sovranità valutaria, cioè alla possibilità di svalutare quelle che un tempo erano le loro monete. Per far fronte all’indebitamento crescente, non resta loro che la leva fiscale, vale a dire l’impopolare taglio della spesa pubblica o l’altrettanto impopolare aumento delle tasse. Ma si tratta di alternative che provocano, purtroppo, una forte, inevitabile tensione sociale in un quadro dalle prospettive estremamente incerte.
ATTO TERZO
L’UEM, creata nella speranza di un promettente sviluppo anche politico del continente si trova in mezzo al guado quando la piena, originata negli Stati Uniti, giunge impetuosamente in Europa. Nel settembre 2008 c’è il fallimento Lehman Brothers che ferma l’economia mondiale. Nell’ottobre 2009 arriva un altro fallimento più o meno mascherato: quello della Grecia. Si tratta di due eventi destinati a far entrare l’euro in una crisi di non poco conto. È, infatti, un duplice colpo al suo sistema: il primo originato dalla crisi finanziaria globale; il secondo esploso all’interno dell’eurozona. Ambedue tendono ad assumere i contorni di uno shock non solo economico e finanziario ma anche sociale e politico. Viene meno l’idea che il capitalismo, vincitore sul comunismo dal 1989, riesca, attraverso il meccanismo del mercato, a superare o assorbire ogni tipo di ostacolo. In questo contesto, Bruxelles e Francoforte, dopo tentennamenti e incertezze, cominciano ad interagire: si vuol far adottare, agli Stati in maggiore difficoltà, politiche economiche sostenibili nel lungo periodo, ma con misure di austerità nel breve. Dopo interminabili riunioni ai vertici europei si stratifica una serie di procedure e controlli sulle politiche nazionali. Alcuni Paesi, e in primo luogo la Grecia, diventano i cosiddetti “sorvegliati speciali” mentre ha inizio una recessione destinata a durare nel tempo. La cosiddetta “trojka”, costituita da Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Commissione Europea, Banca Centrale Europea (Bce), che si riconduce ai prestatori di denaro, diventa un incubo.
Quasi nello stesso periodo si fa strada, nella pubblica opinione, l’idea secondo la quale la mancata crescita dell’economia e la disoccupazione siano causate da un eccesso di autorità imposto da un “pensiero unico” generato in Germania e in altri Paesi nord-europei: si affermano così movimenti antieuro e di opposizione all’UE.
Al capezzale dell’eurozona non resta che chiamare la cancelliera Merkel, con la sua borsa degli attrezzi: purtroppo, sono attrezzi buoni per l’economia tedesca, non sempre per quella degli altri Paesi. Certamente, non sono attrezzi adatti a soccorrere i “sorvegliati speciali” per i quali si inventa un salvagente tecnico detto “Fondo salva-Stati” e si aumentano i poteri di vigilanza della Bce su trenta tra le maggiori banche europee. In definitiva, lo strumento proposto per uscire dalla crisi sembra essere quello del rigore. Così, nel 2012, si firma il “Fiscal Compact” che riguarda non solo l’eurozona ma l’intera UE ad eccezione della Gran Bretagna. È un patto che obbliga i firmatari, cioè gli Stati, a tenere un bilancio in pareggio e a ridurre del 5% all’anno la parte del debito pubblico che ecceda il 60% del Pil. Si tratta di un rigore che costringe ogni Paese ad assumere la responsabilità delle proprie scelte ma evidentemente non basta a dare i frutti sperati. Soprattutto perchè l’austerità nazionale, i sacrifici richiesti, non vengono bilanciati da una altrettanto attesa generosità europea. In assenza di crescita rimane quindi soltanto la recessione e resta immutato il debito pubblico.
Con l’aggravarsi della crisi, scende in campo Mario Draghi con la “sua” Bce. Quest’ultima appare come l’unico organo ancora attivo ed efficace per la salvaezza e ciò nel vuoto delle istituzioni europee e nella manifesta inettitudine dei governi nazionali. Draghi comprende il vantaggio che gli offre la sua carica: non deve rispondere a nessuno delle sue scelte, se non alla storia. Sull’orlo della crisi, pericolosa per l’esistenza dell’euro, all’inizio del 2015, il governatore della Bce annuncia così la decisione di immettere una grande massa di liquidità nel sistema, operando l’acquisto di titoli pubblici e privati al ritmo mensile di 60 miliardi di euro fino al settembre del 2016: è la misura definita come Quantitative Easing (QE) che, in poche parole, svaluta l’euro sul dollaro con una manovra monetaria di tipo espansivo che dovrebbe rimettere in sesto l’economia dell’eurozona, giunta ormai alla soglia del tracollo soprattutto per i “sorvegliati speciali”. Se vogliamo usare una metafora forte è l’uso del defibrillatore per ridar vita ad un paziente in condizione critica; uno strumento efficace ma anche l’ultima e decisiva risorsa cui ricorrere per stimolarne una positiva reazione. Il banco di prova resta la Grecia, la cui uscita dall’euro sembra non trovare molte alternative alle promesse di quello che diventa il governo Tsipras.
EPILOGO
La propaganda di Tsipras e del suo partito si rivela presto ingannevole: i debiti sono debiti, non li si può cancellare impunemente secondo quanto promesso agli elettori. Ingannevole è pure l’assetto attuale dell’Europa che mette in pericolo non solo l’esistenza della sua moneta ma la stessa democrazia e tutto lo storico processo di unificazione politica: un processo che, troppo spesso, si dà per scontato dimenticandone le conquiste. Quel che è accaduto nel continente dal 2008 in poi non è altro che un dissociarsi sempre più ampio tra regole europee, certo da rispettare in quanto sottoscritte dai governi nazionali, e regole della democrazia interna degli Stati, legate alle scadenze elettorali che, a intervalli ravvicinati, non fanno che evidenziare un distacco crescente tra cittadini e costruzione europea, pregiudicando seriamente le basi di quest’ultima.
Illuminante, a questo proposito, il pensiero di Angelo Panebianco (“Ma serve ancora andare al voto?”, Corriere della Sera del 15.03.2015) di cui riportiamo un breve estratto: “…da un capo all’altro del Vecchio continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla “dittatura europea”, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla “arroganza” della Germania, eccetera, eccetera. Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati. Allora attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti) e dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione perchè la Germania non è un piccolo Paese. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale, che verrà usato e rilanciato da tutti i leaders antieuropei, sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione“.
Perchè, dunque, non lasciar uscire la Grecia dall’eurozona?
Alla fine di questa narrazione in tre atti sull’euro e sulla sua crisi, si prospetta un futuro quanto mai incerto. Se l’euro è il termometro che rivela il malessere (o il benessere) dell’Europa ed esplodendo può innescare un dramma imprevedibile, la terapia non può limitarsi solo alle misure economiche o bancarie, nonostante l’innegabile perizia di Mario Draghi. Serve qualcosa di più perchè il cinismo e la stanchezza di molti europei sono un male insidioso che bisogna conoscere e combattere. Con la forza della verità, delle idee nuove e, perchè no, dell’utopia.